Relazione settimana

RELAZIONE

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Lorenzo Calanchini 

nasce nel 1983 a Bologna, dove consegue prima la maturità scientifica e poi la Laurea Magistrale in Ingegneria Edile/Architettura, nel marzo 2007. Nel 2008 apre il suo studio tecnico personale. L’attività ha assunto nel tempo il nome di Kòsmos Group. Lo studio si occupa di progettazione architettonica a qualsiasi scala, di progettazione strutturale e più in generale del coordinamento generale della progettazione multidisciplinare; si occupa anche di direzione dei lavori, di coordinamento della sicurezza nei cantieri, della progettazione di sistemi di sicurezza, di attività di consulenza e peritale.

 

 

 

La Realtà del sisma

Parlare di terremoto, oggi, rischia di equivalere a calcare le orme di un percorso già avviato e ben battuto dal punto di vista mediatico. Ciò implica come conseguenza la concreta possibilità di scadere nel banale oppure – peggio – di cavalcare un’onda perfettamente definita in cui la fanno da padrone gli “squali” del settore, coloro che cercano di approfittare del panico suscitato da questo fenomeno naturale nelle persone, per ottenere in qualche modo dei vantaggi personali.

Quando a parlare è un tecnico, occorre sempre prestare molta attenzione alle implicazioni e ai significati sottesi nel discorso e pesare adeguatamente ogni singola frase, ogni singola virgola.

Essendo questa breve relazione destinata a un ambito sufficientemente ristretto, penso di poter dire che il succitato rischio, nel caso presente, sia comunque abbastanza limitato. Mi permetterò pertanto di esprimere il mio pensiero di ingegnere (ormai con alcuni anni di esperienza maturata nell’ambito degli interventi post-sisma) con relativa libertà.

I terremoti in Italia ci sono sempre stati. È una realtà ineludibile che però, in qualche modo, tendiamo a dimenticare. È risaputo che siamo un popolo che tende a non considerare un problema quando non ce l’ha davanti agli occhi. Nei confronti del sisma, è andata proprio così, da secoli e secoli a questa parte. Se però una volta si trattava di un atteggiamento in qualche modo giustificabile (non c’erano mezzi e conoscenze per proporre una soluzione al fenomeno calamitoso), ora non è più pensabile di chiudere gli occhi davanti alla realtà dei fatti. È però altrettanto vero che oggi ci troviamo davanti a un panorama fortemente antropizzato e – perlopiù – assolutamente inadeguato a reggere un evento sismico, anche di entità limitata.

Nel corso dei secoli, i terremoti hanno portato distruzione in lungo e in largo nella nostra penisola. Anche in Emilia Romagna. Proprio dove si sono verificati gli epicentri dei terremoti del 2012, nei secoli passati si erano già registrati fenomeni analoghi: sciami sismici molto prolungati, che hanno “snervato” per mesi la popolazione della bassa ferrarese. Ed eventi sismici, anche più intensi dell’ultimo intercorso, hanno interessato la fascia appenninica numerose volte, sempre lasciando dietro di sé danni, crolli…morti.

Perché, quindi, sottovalutare, minimizzare, dimenticare o negare l’evidenza dei fatti? La risposta è in realtà molto semplice: in passato, perché era impossibile intervenire efficacemente; in epoche recenti, invece, per la convenienza economica e politica di una parte di popolazione.

È spiacevole dover raccontare queste verità, ma la scelta è tra parlare di cose vere oppure dire il falso. Non ci sono molte vie di mezzo. Specialmente quando i media ci continuano a propinare pensieri già visti e rivisti e puntano ancora una volta il dito su presunti “responsabili” per quanto è accaduto, volendo in qualche modo negare che il problema sia più grande e dettato non tanto dall’imperizia dei singoli quanto da una mentalità diffusa, poco incline a trovare soluzioni vere.

Parlare di sisma significa addentrarsi su un terreno per molti versi sdrucciolevole, che dà poche certezze. L’unica che abbiamo è data dal numero dei morti. Non è una certezza da poco. Proprio sulla scorta di questa terribile verità dovremmo ripensare all’atteggiamento generale con cui si affrontano le cose.

La domanda principale è dunque: “cosa possiamo fare?”

Una domanda che non ha una risposta semplice, immediata, ma che dal mio punto di vista necessita di una risposta radicale: possiamo pensare con saggezza. Dobbiamo abbandonare il qualunquismo con il quale ci lasciamo affascinare da facili slogan. “Ora consolidiamo l’Italia!”; “Troviamo i colpevoli delle stragi!”; “I soldi ci sono ma sono stati spesi male!”…sono tutte parole che vanno bene per comporre i titoli dei giornali, ma non servono ad altro, se non ad alimentare illusorie aspettative e a incrementare un senso di rabbia che purtroppo non aiuta a comprendere la natura del problema.

Il patrimonio edilizio italiano non è adatto a reggere l’urto dei terremoti: le nostre costruzioni in pietra o mattone sono abbastanza adeguate a sopportare il proprio peso e quello della neve, si sono rivelate utili a combattere le diverse esigenze climatiche che si alternano nel corso delle stagioni (non siamo in Africa, né al Polo Nord: il clima da noi è variegato, nelle stesse zone si verificano escursioni termiche annuali di decine di gradi), però a livello sismico sono poverissime. Gli elementi costitutivi delle nostre strutture sono perlopiù pesanti e non adatti a sopportare sforzi di flessione o di trazione, al contrario dell’acciaio o del legno; si tratta di edifici massivi, con pareti spesse anche 60-80 cm (si pensi ai castelli o alle case padronali), con frequenza di porticati, volte, arcate: tutti elementi assolutamente inidonei a far fronte a spinte orizzontali, che sono quelle che i terremoti in larga parte comportano. Fabbricati come le chiese sono particolarmente vulnerabili, ma anche fienili, magazzini e più in generale tutte le case del nostro territorio presentano caratteristiche sfavorevoli in tal senso. In questo contesto, sono piuttosto inutili (e danno, sinceramente, anche molto fastidio) le affermazioni di qualche professore giapponese che sostiene che a casa sua terremoti come il nostro non farebbero danni. Certamente, perché in Giappone si è sempre costruito utilizzando largamente il legno (anche nei castelli…) e, successivamente, l’acciaio o comunque elementi leggeri, come pareti scorrevoli che di fatto sono costituite da carta o tela. Questo modo di costruire risponde bene alle esigenze antisismiche, d’altra parte presenta numerosi altri problemi (si pensi a quello degli incendi). Ma perché osservazioni come queste sono inutili e fastidiose? Perché non abbiamo costruito anche noi come i nipponici? La risposta non è difficile: la penisola italiana nella preistoria si presentava come una foresta sterminata, ma quando le prime popolazioni hanno avviato la colonizzazione larga parte del territorio è stata disboscata, un percorso che poi è proseguito in epoca romana, quando il legno serviva per produrre manufatti da guerra e imbarcazioni e le poche aree pianeggianti dovevano essere liberate per fare posto alle strade e ai campi coltivati. Inoltre, il legno è stato utilizzato abbondantemente per le abitazioni, ma i problemi legati agli incendi (si vedano quelli di Roma), specialmente nei quartieri popolari, erano preponderanti rispetto a quelli sismici e al legno è stata in seguito preferita la più solida pietra, ritenuta più nobile e sicura. Con il fiorire delle cave, la pietra è diventata il materiale di punta per la produzione edilizia; nelle zone dove l’approvvigionamento era meno facile, la si è sostituita col mattone e talvolta con i primi impasti di leganti che richiamano le più moderne tecnologie legate al cemento (si veda la storia del Pantheon). Per quanto riguarda l’acciaio, invece, oggi abbiamo un buon sviluppo industriale legato alla trasformazione, ma non siamo grandi produttori di materia prima, perciò la siderurgia applicata in edilizia per noi è tuttora un’opzione poco praticata (anche se ultimamente questa branca del mercato è in evoluzione).

Quindi, non è possibile valutare l’effetto del terremoto in Italia prescindendo dalle specificità intrinseche del nostro territorio e della nostra storia. A questo proposito, gli “esperti” venuti da oltre confine dovrebbero ponderare bene prima di esprimere giudizi affrettati.

Naturalmente, se si omette questa importante premessa si cade inevitabilmente nei tranelli degli slogan facili. Consolidare l’Italia è un’utopia, specialmente se teniamo conto dei vincoli legati al valore storico e testimoniale di molti manufatti che costellano la penisola. Sarebbe a mio avviso molto più saggio raccontare alla gente la verità: ovverosia che non è possibile mettere davvero in sicurezza il territorio se non con importanti interventi di demolizione e ricostruzione, che però andrebbero davvero promossi in tutti quei casi in cui ci si trova dinanzi a edifici senza particolare pregio o non inseriti in contesti fortemente storicizzati. Ad esempio, molta dell’edilizia risalente alla metà dello scorso secolo versa già in condizioni di scarsa sicurezza: è stata realizzata poveramente, velocemente  (sull’onda del boom post-bellico), senza particolare cura nei dettagli costruttivi strutturali (paradossalmente, si realizzavano lavandini con modanature, ma ci si dimenticava di ammorsare i mattoni agli angoli dei muri…).

Purtroppo, l’approccio conservativo legato al restauro è stato qui da noi applicato in maniera indistinta e talvolta arbitraria e vincola sia beni effettivamente rilevanti che palazzi senza alcun pregio. Ci si dimentica che cambiare è nella natura umana e che anche nei secoli passati venivano mantenute le opere monumentali o testimoniali più importanti, ma i quartieri abitativi non sono sopravvissuti, sono stati trasformati, sventrati, ricostruiti sulla base di nuove esigenze. Mai come ora si è assistito a una paralisi, a un congelamento così radicale, a un’incapacità decisionale che comporta l’inevitabile mummificazione del territorio per paura di sbagliare nelle proprie scelte. Questo timore dell’errore, questa incertezza latente, non porta altro che danni e lascia spazio non a chi è più volenteroso e promotore di innovazione, ma a coloro che sfoggiano l’arrogante saccenteria di chi formula pensieri triti e ritriti, ripetendo formule coniate da altri.

Anche nel campo del vero e proprio consolidamento, da applicare quando necessario (chiese, centri storici, opere monumentali), si assiste a un atteggiamento di ambiguità imbarazzante. A proposito dell’ultimo sisma, quello del Centro Italia, sono a mio avviso stati esemplari due pareri richiesti a esperti, nei giorni immediatamente successivi all’evento. Forse molti li ricorderanno. Il primo sosteneva che è necessario applicare le tecnologie più innovative nelle opere di consolidamento, mentre il secondo, contemporaneamente, asseriva l’inefficacia delle tecnologie utilizzate in Giappone o USA (cioè le più recenti) nel nostro contesto, preferendo interventi tradizionali come il raddoppio delle murature portanti o il posizionamento di tiranti in acciaio (catene). Due pareri diametralmente opposti che non possono non creare confusione. Ma chi ha ragione? A priori, direi tutt’e due o, meglio, nessuno dei due. Non è possibile scegliere una strada d’intervento senza approfondire le valutazioni caso per caso. Ogni edificio, ogni contesto, ha le sue specificità e occorre tenerne conto, anche perché entrambi gli approcci possono avere ripercussioni negative, se non ben calibrati, dal punto di vista economico, logistico e addirittura proprio in senso strutturale.

Ecco quindi che siamo giunti alle conclusioni. Conclusioni oserei dire “aperte”. Mentre ci si affretta a puntare il dito contro gli autori di danni (ricordiamo la caccia alle streghe relativa agi interventi sul campanile e sulla scuola crollati…forse i progetti non sono stati ben concepiti, probabilmente gli interventi non sono stati ben realizzati, ma le cifre in gioco – dette e ripetute nei TG – hanno, per chi lavora da anni nel campo, il sapore del ridicolo. Chiunque abbia un minimo di conoscenza in materia comprende subito che con determinati importi stanziati si può tuttalpiù adire a interventi di finitura e abbellimento, nulla a che vedere con consolidamenti strutturali, che necessitano di ben altre cifre), occorrerebbe piuttosto cambiare prospettiva e cercare di intervenire a monte, sulla mentalità dominante, sulla nostra scarsa coscienza collettiva di prevenzione, sulla continua ricerca del risparmio a detrimento della qualità. Tutti fattori che implicano la non-risoluzione dei problemi; atteggiamenti sbagliati, anti-contemporanei, da sradicare assolutamente, se vogliamo davvero pensare a migliorare il nostro territorio. La necessità più urgente è eliminare gli schematismi in cui ci siamo rinchiusi per recuperare una saggezza operativa e una freschezza di pensiero che restituiscano dignità a tutto il nostro Paese.