Riunione ordinaria n. 17 del 4 giugno – E’ lecito sostituirsi allo Stato? Gian Vincenzo Lucchini
Relazione settimana
E’ lecito sostituirsi allo Stato?
Il nostro sistema politico protegge e promuove l’iniziativa privata, intesa come la libertà dell’individuo di “fare impresa”, investendo denaro proprio al fine di creare valore per sé e per gli altri. Questa libertà deve essere esercitata senza violare le libertà altrui. Lo Stato, tra i suoi vari compiti, si assicura che tale “rispetto” non subisca patologiche limitazioni causate dall’eccessiva aggressività di chi eccede nel proprio legittimo desiderio di guadagno.
Lo Stato mette a disposizione della popolazione i servizi che una comunità civile ritiene di dover garantire a tutti i cittadini, indipendentemente dalla propria capacità economica. Fra questi, l’assistenza sanitaria. Questo non accade sempre (si pensi alla eterna diatriba in USA tra chi vuole il servizio sanitario nazionale e chi lo osteggia), ma, vivaddio, in Italia almeno questo non pare in discussione. Le risorse storicamente garantite alle strutture ospedaliere pubbliche sono state sufficienti a garantire un servizio in grado di coprire gran parte del territorio nazionale. Il non aver attribuito alcun aggettivo al termine “servizio” non è casuale, data la ben nota varietà di qualità che si riscontra nelle strutture sparse per la nostra lunga penisola. Ma non è mia intenzione fare facili polemiche e inutili accuse ad un sistema che, come ogni altro, nel suo funzionamento vede eccellenze e problemi.
La positività globale del sistema vede nell’alleanza tra due servizi pubblici, Ospedali e Università, un momento di indiscussa eccellenza. La possibilità di dedicare risorse senza la costrizione di garantire ritorni agli investimenti effettuati e la disponibilità di personale universitario disponibile alla ricerca pura oltre che applicata, non può che facilitare la ricerca finalizzata a risultati accessibili alla totalità dei cittadini, ciò che non può dirsi delle strutture private che, a fronte di grandi investimenti, hanno necessità di garantirsi adeguati ricavi.
Ho aperto con queste mie riflessioni – che spero potranno suscitare commenti, anche dissenzienti, nei nostri soci che vivono direttamente il mondo universitario e/o ospedaliero – solo per spiegare, ed aprire al confronto, la mia decisione, qualche anno fa, di entrare in un gruppo di persone il cui scopo altruistico era dichiaratamente non quello di fare “beneficienza” o aiutare i bisognosi, ma quello di raccogliere fondi per dare supporto ad un dipartimento dell’Ospedale Sant’Orsola che, a causa della carenza di fondi, stava per (dis)perdere il proprio materiale scientifico ed umano.
Mi chiesi allora se aveva senso intervenire offrendo, da privato, supporto ad un Ospedale Universitario, al di fuori da ogni schema classico, secondo il quale il servizio pubblico dovrebbe essere finanziato con denaro pubblico.
Fatemi entrare un po’ più nello specifico, raccontandovi esattamente a quali circostanze mi riferisco. Il Reparto sul quale intendevamo concentrare la nostra attenzione è quello di chirurgia Maxillofacciale, diretto dal Prof. Claudio Marchetti. Nel suo ambito rientrano sia l’odontoiatria che alcune pratiche di chirurgia plastica, solitamente ricostruttiva. Infatti, l’area più caratteristica e di maggior momento sociale è probabilmente quella oncologica, focalizzata sulla cura dei numerosi tumori che possono attaccare l’area del viso. Ugualmente, questa branca della chirurgia si focalizza sulla ricostruzione del viso in tutti quei casi di gravi malformazioni che affliggono un numero non indifferente di neonati. In una sola parola, si tratta di una chirurgia che sul fronte della cura interviene in patologie essenzialmente oncologiche, e su quello della ricostruzione tenta non solo di ricostruire tessuti, muscoli e ossa, ma anche – e in questo è particolarmente complessa – a restituire l’espressione del viso, la capacità di parlare, in una parola sola, la capacità relazionale che passa attraverso il viso, che una persona ha perso, o non ha mai avuto.
La complessità di questa chirurgia ricostruttiva sta proprio nella incredibile difficoltà di prevedere l’esito degli interventi, dato che una minima modifica al viso ha effetti il più delle volte imprevedibili. E questo è il motivo per cui questo tipo di operazioni spesso devono essere ripetute più volte, o perché gli interventi sono così invasivi da suggerirne la “diluzione” in più occasioni, oppure perché è necessario fare più di un’operazione per raggiungere quanto più possibile un’espressione armoniosa del viso offeso. Questa necessità di reiterazione chirurgica è particolarmente grave nei bambini, data la loro crescita che, inevitabilmente, viene influenzata dall’operazione effettuata, e viceversa.
Il reparto di chirurgia maxillofacciale del Sant’Orsola, quando ci avvicinammo alla sua realtà, viveva una situazione che, da un verso, mostrava grandi potenzialità, avendo individuato metodologie chirurgiche di assoluta avanguardia, ma dall’altro difficoltà gravissime, data la quasi totale assenza di fondi non solo per sviluppare i progetti scientifici che aveva nel cassetto, ma addirittura per finanziare la propria attività ospedaliera e la propria crescita, offrendo a studenti meritevoli l’opportunità di rimanere in reparto sia per approfondire le tecniche chirurgiche che per proseguire la ricerca.
Non intendo speculare sui reali motivi che avevano portato l’ateneo a distribuire i fondi disponibili privilegiando altri reparti rispetto a quello maxillofacciale. Mi limito a prendere atto di quello che accadde dopo che la Fondazione presieduta da un caro amico (alla quale sono da anni al fianco, con molte meno risorse, ma non minore entusiasmo) decise di sostenere il Prof. Marchetti finanziando sia l’acquisto dei macchinari necessari per attuare le pratiche chirurgiche studiate negli anni precedenti, sia il compenso per trattenere i collaboratori più validi, tutti, come spesso accade, insistentemente corteggiati da università ed ospedali stranieri impazienti di far proprie conoscenze non ancora disponibili nei loro paesi (e tra questi, primi tra tutti USA e UK).
La tecnologia che contribuimmo a sviluppare è denominata “navigatore” e consiste in un complesso sistema di rilievo in 3D delle aree sulle quali intervenire chirurgicamente. Una volta completata la mappatura, che raccoglie più e diversi rilievi di tipo radiologico e estetico, si ottiene un realtà simulata molto fedele a livello osseo e muscolare, nella quale è possibile testare l’intera operazione riuscendo a verificarne, entro certi limiti, anche il risultato finale. In tale ambiente ogni intervento può venire ripetuto e migliorato, sino a raggiungere il processo chirurgico ottimale. Una volta individuatolo, l’operazione può avere luogo, riproducendo l’operazione salvata sul sistema, attraverso sofisticati sistemi di sovrapposizione tra l’immagine simulata e la realtà. Attualmente si sta studiando un progetto ancora più ambizioso, rappresentato dalla possibilità di svolgere l’operazione attraverso un visore 3D che permette di sovrapporre in maniera totale l’operazione simulata e salvata con l’operazione finale sul paziente. Attraverso questo sistema si è non solo ottenuto un drastico miglioramento nella qualità delle operazioni, ma anche una decisa riduzione nel loro numero che, soprattutto nei bambini, per i motivi già accennati, deve essere estremamente elevato.
In questi pochi anni, il “nostro” reparto è diventato un centro di eccellenza assoluta sia dal punto di vista scientifico, che da quello operatorio; una leadership che forse condivide con un paio di centri al mondo. I nostri ragazzi, che riuscimmo a trattenere, sono invitati in tutti i convegni mondiali per condividere i risultati degli studi e gli elementi dei nuovi progetti. L’eccellenza raggiunta, che si sostanzia nella capacità di curare patologie incurabili sino a pochi anni fa, ha comportato il richiamo dall’Italia e dall’estero di pazienti, creando code d’attesa ormai troppo lunghe. E’ stata aperta una “succursale” del reparto, innestato nell’omologo reparto dell’ospedale di Catania, che già riesce a far fronte alle patologie meno gravi, ma grazie al dr. Bianchi, braccio destro del prof. Marchetti, ha il progetto di crescere ed affermarsi come centro di eccellenza nel sud dell’Italia.
Forse, mi dico spesso, con il nostro sforzo abbiamo contribuito a “rimettere in strada” qualcosa che stava per perdersi. Lo abbiamo fatto con impegno non solo economico, ma anche di sensibilizzazione sociale. Probabilmente ricorderete l’invito che vi estesi, negli anni scorsi, per partecipare al concerto di FACE3D, il nome della Fondazione che fu costituita per raccogliere fondi a sostegno del reparto. Le patologie di questo tipo, infatti, se non conducono alla morte, come talvolta accade nei casi in cui la malformazione abbia origine oncologica, ti lasciano in un limbo relazionale spaventoso, nel quale essere privi di viso di fatto può escluderti da ogni relazione sociale. Questa patologia è poco conosciuta non perché sia rarissima. Il motivo è che chi ne è affetto, si nasconde. E questo è vero anche e soprattutto per i bambini. Forse avrete visto il recente film “Wonder” con Julia Roberts: di questo si tratta, con due sole eccezioni: che l’aspetto dei nostri bambini è “peggiore” di quello del protagonista, in una misura difficile da immaginare. E che, nella vita reale, raramente si può sperare in un lieto fine se non restituendo a questi bambini un viso del quale non provare vergogna.
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Non ho mai risposto alla domanda che fa da titolo a questa mia chiacchierata con voi e mi farebbe piacere che condivideste con me, e con noi, cosa ne pensate. A me, bastò sentire uno dei nostri bambini, convalescente dall’ultima di tante operazioni, raccontarci quanto fosse bello, per la prima volta nella sua vita, sorridere.
Gianvincenzo Lucchini