Relazione settimana

RELAZIONE
Maria Carla Re
Maria Carla ReSocio del Rotary Club Bologna, Distretto 2072
Professore Ordinario presso la Scuola di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Bologna, responsabile del Laboratorio Retrovirus della UO di Microbiologia. Specialista in Virologia, membro del Senato Accademico Alma Mater Studiorum, direttore responsabile del periodico scientifico The New Microbiologica e membro del direttivo dell’Associazione onlus Susan G. Komen.
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Il ritorno del killer Ebola

Era uno degli ultimi giorni di agosto del 1976, in una zona relativamente isolata del nord dello Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo) nei pressi del fiume Ebola e vicino alla cittadina di Yambuku alla cui periferia era situato un ospedale (Yambuku Mission Hospital), un uomo, forse un cacciatore, uscì dalla zona boschiva e, chiaramente in cattive condizioni di salute, raggiunse l’ospedale in cerca di soccorso. Il soggetto era febbricitante e fu classificato subito come affetto da malaria e sottoposto ad un’iniezione di clorochina. La febbre e i sintomi della malaria presentarono un certo miglioramento In pochi giorni, però, la situazione del paziente presentò un drammatico aggravamento e la comparsa di diffuse emorragie, seguite dalla morte. Contemporaneamente la stessa patologia si diffuse tra i pazienti ed il personale sanitario. L’ospedale in poche settimane venne chiuso (11 membri dello staff sanitario su 17 erano deceduti) ma la malattia si diffuse nei villaggi circostanti portando complessivamente a più di 300 casi con un’elevatissima mortalità (280 decessi). Trattandosi di una zona relativamente isolata e senza vie di comunicazione molto frequentate, il focolaio si esaurì in pochi mesi. La patologia era assolutamente nuova sia per i medici sia nella esperienza della popolazione. Una commissione internazionale di esperti con la collaborazione dell’OMS portò abbastanza rapidamente alla definizione della eziologia: si trattava di un virus molto simile al virus di Marburg identificato alcuni anni prima[1].

Da allora sono stati verificati diversi episodi epidemici, di diversa dimensione (da poche decine ad alcune centinaia di casi) e di diversa durata (da qualche settimana ad alcuni mesi) sempre nelle zone centro equatoriali dell’Africa (Gabon, Congo, Uganda soprattutto).

L’epidemia attualmente in corso, iniziata con i primi casi nel dicembre 2013, è la più grave mai registrata (quasi quattromila casi) ed ha interessato per la prima volta l’Africa occidentale (Guinea, Liberia, Sierra Leone, Nigeria) con un’elevatissima letalità (oltre il 50% dei casi). L’infezione si è manifestata in zone densamente abitate, con numerose vie di comunicazione ed una organizzazione sanitaria assolutamente carente. Tutte condizioni che ostacolano grandemente la possibilità di arginarla efficacemente in tempi brevi.

Poco più di un mese fa (8 agosto 2014) il Direttore Generale dell’OMS ha dichiarato, sulla base del parere fornito dal Comitato di Emergenza del Regolamento Sanitario Internazionale appositamente

convocato, che l’epidemia di Malattia da virus Ebola (EVD) in corso in Africa Occidentale costituisce una emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale. E come è stato accennato in questi giorni dalla presidente di Medici Senza Frontiere, dr. Jeanne Liu: il mondo sta perdendo la battaglia contro l’epidemia di Ebola.

E ancora più recentemente (16 settembre c.a.) il Presidente degli Stati Uniti ha presentato nel corso di una visita ai Centers for Disease Control and Prevention (CDC) di Atlanta il suo piano strategico (chiamato Operation United Assistance) che prevede l’arrivo non solo di tremila soldati, ma anche dioperatori sanitari e forniture mediche,in Africa occidentale per tentare di fronteggiare una delle più devastanti epidemie della storia.

Secondo stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, saranno 250 mila le persone infettate da Ebola entro il prossimo Natale. Al momento in cui scriviamo le vittime di questa intollerabile epidemia sono state almeno 2400, anche se fonti ufficiali dicono che questi dati siano sottostimati.

Tutto ciò naturalmente giustifica il livello di allarme internazionale, dovuto al numero elevato di contagi e di decessi, alla mancanza di una terapia standardizzata e -non da ultimo – alla paura della diffusione dell’infezione oltre i confini originari.

A questo proposito vale la pena fare il punto su alcune caratteristiche di questo virus e sulle sue modalità di trasmissione.

Il virus: Ebola è un virus caratterizzato da una morfologia alquanto insolita, presentandosi (come il virus Marburg) con una forma allungata (filamentosa) che lo ha fatto classificare nell’ambito dei Filovirus. Come tutti i virus, con un genoma[2] ad RNA, Ebola ha la capacità di mutare nel corso della sua vita e quindi di produrre e di mantenere alcune caratteristiche vantaggiose per il proprio ciclo vitale, aumentando la propria capacità di diffusione e di infezione. Al momento, però, i dati riportati dal Center for Diseases Control (CDC) di Atlanta ci confortano in quanto le analisi genetiche effettuate sui ceppi isolati durante l’epidemia in corso certificano che i virus in circolazione non hanno, ancora, subito variazioni tali da renderli significativamente differenti e quindi capaci di avere un livello maggiore di diffusione.

In realtà ancora oggi non è noto quale sia il reservoir di Ebola, e come questo virus si trasmetta all’uomo. Alcuni chirotteri (pipistrelli) frugivori sono stati dimostrati infetti asintomaticamente e sembra rappresentino il reservoir naturale dell’infezione, anche se non sono noti i meccanismi che mantengono l’infezione tra i pipistrelli. Dai pipistrelli, l’infezione, occasionalmente, si propaga ad altri animali (antilopi, scimmie) dove provoca focolai epizootici con elevata mortalità e da qui, probabilmente, all’uomo (che sembra possa infettarsi anche direttamente dai pipistrelli).

L’infezione interumana. L’infezione avviene per contatto diretto (attraverso le mucose o ferite della pelle) con il sangue o altri fluidi corporei o secrezioni (feci, urine, saliva, sperma) provenienti da persone infette sia viventi che decedute.

La malattia e il rischio di diffusione dell’infezione. La malattia, dopo un periodo di incubazione variabile tra 8-10 giorni – range di 2-21 giorni – si manifesta con comparsa improvvisa di febbre, intensa debolezza, dolori muscolari, mal di testa e mal di gola, seguiti da vomito, diarrea, esantema, insufficienza renale ed epatica e, in alcuni casi, emorragia sia interna che esterna.

Ed è proprio quando il paziente comincia a manifestare sintomi che diventa fonte di contagio, mentre la possibilità di trasmettere il virus è nulla durante il periodo di incubazione.

La stima e la valutazione del rischio nelle aree endemiche risulta difficile, in quanto, come abbiamo già accennato precedentemente, non è noto il reservoir dell’infezione. Al momento però sappiamo che:

  • Tutti i casi umani sono avvenuti in Africa (con l’eccezione di alcuni incidenti di laboratorio avvenuti in Inghilterra (uno) e in Russia (due);
  • Durante il 2014 due operatori sanitari infettati da Ebola in Liberia sono stati trasportati negli Stati Uniti
  • I soggetti a rischio sono rappresentati da operatori sanitari, familiari e persone a stretto contatto con il paziente. Pertanto risulta indispensabile rafforzare le misure cautelative utilizzando i dispositivi di protezione individuali atti ad evitare i contatti con materiale biologico proveniente dai pazienti.

E anche se Ebola si sta dimostrando sempre più insidioso, la diffusione del virus al di fuori dai luoghi di origine è molto improbabile. Il Ministro della salute, Beatrice Lorenzin, ha affermato che siamo stati tra i primi ad attivare il sistema di allerta e le procedure di sicurezza sono attive nei porti e negli aeroporti. Inoltre, la mancanza di collegamenti aerei diretti con le zone colpite e il fatto che eventuali passeggeri sospetti dovrebbero pervenire da altri scali europei (tutte le autorità aeroportuali hanno rafforzato la sorveglianza) diminuisce ancora di più la possibilità dell’arrivo di un soggetto affetto da Ebola.

Il trattamento e la prevenzione. Al momento, non esistono farmaci antivirali ufficialmente approvati e il trattamento dei pazienti è basato su cure sintomatiche.

All’inizio dell’estate su alcuni pazienti è stato impiegato a scopo terapeutico un trattamento con il “siero” denominato “ZMapp” ancora in fase sperimentale. ZMapp, sviluppato dalla Mapp Biopharmaceutical Inc., in collaborazione con altre industrie biotecnologiche californiane (e organizzazioni governative canadesi), è una miscela di tre anticorpi monoclonali “umanizzati”, diretti contro proteine superficiali del virus Ebola, prodotti in piante del genere Nicotiana le cui cellule, dotate di un efficiente sistema proteinopoietico, sono state adeguatamente “ingegnerizzate” mediante l’introduzione dei relativi geni nel DNA nucleare. Alcuni soggetti trattati con ZMapp sono guariti ma non è ancora possibile un giudizio definitivo sull’efficacia del trattamento che, comunque, alla fine di luglio, è stato autorizzato in via provvisoria. L’’industria produttrice ha recentemente ricevuto un cospicuo finanziamento dal governo per aumentarne notevolmente la produzione (la ditta ha dichiarato che le scorte del farmaco – sinora fornito gratuitamente alle organizzazioni sanitarie operanti nelle zone dell’epidemia – al momento sono esaurite).

Per quanto riguarda la prevenzione non esistono strumenti immunitari specifici (vaccini) e tutto è affidato all’isolamento ed alla quarantena dei soggetti infetti. Ma, a questo proposito, la notizia positiva viene proprio da un gruppo di ricercatori italiani, che hanno progettato un vaccino specifico. Le prime indagini sono state condotte su un gruppo di scimmie, in collaborazione con laboratori degli USA, l’unico paese dotato di strutture dove è possibile una sperimentazione animale con il virus Ebola. Il risultato preliminare, e tutto lascia sperare che esso possa essere confermato in ulteriori ricerche, è stato strabiliante: il 100% degli animali vaccinati è risultato protetto dall’infezione sperimentale con il virus Ebola per oltre 1 anno.

Bisognerà probabilmente aspettare il 2015 per poterlo provare sull’uomo. E di fronte a questo enorme successo scientifico, firmato Italia, ci rimane l’amarezza di dovere constatare che questi nostri ricercatori non sono stati finanziati con fondi italiani, ma con fondi arrivati dalla Svizzera, dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dall’Olanda.

Impareremo la lezione, almeno questa volta? O ce ne dimenticheremo e continueremo a lamentarci?

 

Letture consigliate:

Center for Disease control and prevention at http://www.cdc.gov/vhf/ebola/
La Placa. Principi di Microbiologia Medica XIV edizione
Check Hayden E. World struggles to stop Ebola. Nature. 2014 Aug 28;512(7515):355-6.

[1] Il virus Marburg è stato identificato nel 1967 in se­guito al verificarsi di due focolai epidemici di Febbre emorragica, in due laboratori, rispettivamente in Ger­mania ed in Jugoslavia, tra gli addetti alla preparazione di colture cellulari di rene di scimmia da animali (Cer­copithecus aethiops) di recente importati dall’Africa. Complessivamente furono osservati 25 casi, oltre ad altri 6 casi secondari tra il personale medico a contat­to con i pazienti, con 7 morti. L’origine della infezione presente solo in alcune scimmie, nonostante accurate indagini nel Paese di provenienza (Uganda) non è stata rintracciata. Virus Marburg e Virus Ebola appartengono entrambi alla famiglia dei Filoviridae Del virus Marburg esiste un solo genotipo/tipo antigene, mentre del virus Ebola sono noti almeno 5 diversi genotipi/tipi antigenici di cui 4 sicuramente patogeni per l’uomo.

[2] Il genoma (DNA o RNA) contiene le informazioni genetiche necessarie e sufficienti a garantire la replicazione del virus,e perché il processo di replicazione venga avviato ed eventualmente condotto a termine è indispensabile che il genoma virale e, quindi, le informazioni genetiche che esso contiene vengano veicolate all’interno di una cellula idonea.

Maria Carla Re