Riunione interattiva n. 10 – 1 dicembre 2021: EVOLUZIONE DELLA SITUAZIONE IN AFGHANISTAN di Pietro de Carli in conferenza a MOLA 27.11.202
Relazione settimana
CONFERENZA-DIBATTITO DEL ROTARY CLUB SULLA EVOLUZIONE DELLA SITUAZIONE IN AFGHANISTAN – IMOLA (BO) 27.11.2021
Pietro De Carli, coordinatore dei programmi di emergenza umanitaria in Afghanistan dagli inizi del 2003 al 2007 per conto del Ministero degli Esteri.
Domanda di Maria Grazia Palmieri “sull’intervento umanitario della cooperazione italiana in Afghanistan”
Risposta: Gli interventi di emergenza della cooperazione italiana che ho coordinato hanno coinvolto un’area molto vasta del Paese: 22 distretti in 9 province, ricostruendo ospedali ridotti in macerie, scuole finalizzate ad una frequenza senza discriminazioni di genere, pozzi e interventi di irrigazione in agricoltura, piccole aziende cooperative femminili autogestite, sostegno agli orfanatrofi, agli sfollati e alla popolazione più vulnerabile.
Tutti i progetti sono stati realizzati con fondi stanziati dal governo italiano (12,3 milioni di euro in quei quattro anni) previa consultazione e in stretto rapporto con le comunità e le autorità locali. Siamo intervenuti in diversi settori:
- Sanità: costruzione di 3 ospedali, 3 cliniche e 9 centri di salute completamente equipaggiati, con fornitura di farmaci, ambulanze e sistemi di comunicazioni radio in aree non coperte dalla telefonia cellulare;
- Educazione: costruzione di 3 complessi scolastici nella capitale con una capienza di 5mila studenti, di 15 scuole nei distretti, di un centro di formazione professionale per donne vulnerabili che hanno portato alla creazione di cooperative femminili autogestite nella ristorazione, riparazione telefoni cellulari, lavorazione pietre dure (lapislazzuli) e lampade fotovoltaiche;
- Agricoltura: sostegno ai piccoli agricoltori con assistenza tecnica, fornitura di sementi e fertilizzanti, costruzione di 6 canali di irrigazione e 30 pozzi, riforestazione di zone collinari in aree completamente deforestate per esigenze di legna da ardere nei rigidi mesi invernali.
- Assistenza agli sfollati che rientravano dall’Iran e dal Pakistan con tende, stufe, legna da ardere
Sarebbe stato facile, per chiunque l’avesse voluto, farci del male, se fossimo stati presi di mira. Eppure abbiamo svolto il nostro lavoro, indisturbati, per tutto il tempo che vi siamo rimasti. E questo non solo a Kabul, ma anche nella sede distaccata di Pol-i-Khumri, nella provincia di Baghlan, oltre le cime montuose dell’Hindukush, in quella di Nangarhar e nell’ufficio di Khost, in prossimità con il confine con il Pakistan, dove le agenzie delle Nazioni Unite avevano cessato le attività per motivi di sicurezza. Col passare del tempo l’aggressività dei talebani diveniva sempre più accentuata con attacchi armati e attentati dinamitardi ad opera di “kamikaze”. Nonostante tutto siamo riusciti ad operare anche nelle zone più impervie senza subirne le conseguenze della loro ostitlità. Evidentemente i talebani tenevano conto della volontà dei capi villaggio che avvertivano l’utilità dei nostri progetti. Il metro di misura dell’impatto del nostro lavoro potremmo descriverlo succintamente in tre esempi molto efficaci:
- la spiegazione la troviamo nella bandiera italiana installata assieme a quella afgana e custodita dalle comunità locali sul tetto della clinica di Nharin, che abbiamo ricostruito assieme ad una scuola, dalle macerie del terremoto del 2002.
- la troviamo nella petizione popolare spontanea delle comunità dei villaggi dispersi nelle zone montuose oltre la catena dell’Hindukush rivolta al ministro della salute e da questi consegnata al nostro ambasciatore, con la quale esprimevano gratitudine al sostegno che gli davamo nel garantire il funzionamento dei loro centri di salute e ne chiedevano la continuità.
- la trovammo, esplicitamente, nelle parole degli anziani dei villaggi che visitavamo ogni volta che ci recavamo a visitare l’andamento dei lavori dei progetti, quando ci assicuravano che eravamo loro ospiti e nessuno ci avrebbe torto un capello.
È importante sottolineare che il nostro modo di operare, come cooperazione civile, è avvenuto sempre armati di penna e bloc notes, senza ricorrere mai alla protezione dell’esercito. Si trattava di una condizione esiziale per costruire un rapporto alla pari con le comunità locali. Purtroppo, quando il governo italiano volle imitare l’esperienza dei PRT americani, che avevano sperimentato vanamente in Vietnam, assoggettando la cooperazione italiana ai contingenti militari, che obbligava i tecnici di cooperazione a gestire i progetti con la protezione di mezzi militari (per dare più visibilità “umanitaria” all’esercito), un altro capitolo importante di aiuto alla popolazione locale perse l’efficacia del ruolo che avrebbe dovuto assolvere, perché diveniva difficile disporre dei mezzi blindati e di scorte armate con la frequenza che il controllo dei lavori lo richiedeva, che rendeva anche più difficile il rapporto con la popolazione. In breve tempo i tecnici rimasero chiusi all’interno degli uffici senza più poter verificare l’andamento dei progetti, con un danno irreparabile per l’efficacia delle iniziative. Molto comunque siamo riusciti a fare in quei primi 4 anni in libertà e senza scorte, ma è stato pur sempre una goccia in un mare di bisogni».
2° domanda: “Cause che hanno vanificato l’intervento militare della comunità internazionale in Afghanistan e riportato al potere i talebani”
- LE CAUSE DI UN FALLIMENTO ANNUNCIATO
Il 15 settembre 2021 il mondo ha assistito allibito alla improvvisa e inimmaginabile riconquista del potere dei Talebani in Afghanistan, dopo vent’anni dal tragico attacco terroristico dell’11 settembre 2001 che fece crollare due giganteschi grattacieli, le torri gemelle di New York, facendovi precipitare due arei passeggeri. Ci eravamo così tanto abituati ad una guerra senza vinti né vincitori che la davamo quasi per scontata. È come se fossero state cancellate con un colpo di spugna le fragili istituzioni afgane faticosamente sorrette nel corso di due decenni. È apparsa in tutta la sua evidenza la sconfitta di una occupazione militare condotta dagli Stati Uniti con il sostegno militare di 44 nazioni. Non solo gli Stati Uniti, memori di precedenti sconfitte in Vietnam, in Somalia e in Iraq, ma anche la comunità internazionale, hanno perso la propria credibilità. Si è dissolto un esercito afgano formato da 330 mila soldati che non ha opposto resistenza all’avanzata dei miliziani talebani. Ma che potevano fare dopo che il presidente USA Donald Trump aveva concluso una trattativa di resa incondizionata con i talebani, il 29 febbraio 2020 a Doha in Qatar, senza coinvolgere il governo afgano e i partner della NATO, senza prevedere un governo di transizione e delle elezioni per consentire ai cittadini di quel Paese di scegliersi i propri governanti, dopo che i governatori e i governanti si sono arresi o sono fuggiti, dopo che la comunità internazionale si dava precipitosamente alla fuga?
Il primo interrogativo che sorge spontaneo è per quale motivo si è giunti a questo esito disastroso e alla catastrofe umanitaria che ne è conseguita. Nulla accade per caso. Ogni risultato ha delle cause precise, non addebitabili soltanto a chi si è trovato col cerino in mano a gestire le conseguenze di un groviglio inestricabile di decisioni prese nell’arco di un ventennio. Bisogna risalire alle origini di questo conflitto, alle falle di immani finanziamenti sprecati negli armamenti riservando solo le briciole allo sforzo di ricostruzione di un Paese sommerso di macerie e privo di infrastrutture e di investimenti produttivi. È il paradosso di una guerra che avrebbe potuto durare all’infinito impedendo all’avversario di conquistare il potere, ma senza mai illudersi di poterlo sconfiggere. Un intervento militare mal concepito, troppo oneroso, dall’esito inevitabilmente fallimentare.
- ESPORTAZIONE DELLA DEMOCRAZIA
Per comprenderne le cause, bisogna ripartire dalla filosofia propagandistica dell’intervento. Il motto sfoderato dal presidente George W, Bush di “esportazione della democrazia” aveva una funzione comunicativa senza alcun fondamento. La democrazia non è una merce di esportazione. È una conquista che si materializza solo quando sono i popoli a volerla e si adoperano per ottenerla. La Resistenza in Europa, che contribuì ad abbattere il nazi-fascismo, ne è stata la dimostrazione più eloquente. Più recentemente la “primavera araba”, tra fine 2010 e inizi 2011, ha prodotto risultati apprezzabili solo in Tunisia, mentre negli altri Paesi arabi è emersa una recrudescenza di regimi autoritari avversi ai diritti civili e alla laicità dello Stato. L’Afghanistan aveva conosciuto un’altra occupazione militare, quella dell’Armata Rossa, durata un decennio (dal 24 dicembre 1979 al 15 febbraio 1989), ed anche in quel periodo avvenne una forzatura su piano dei costumi e delle tradizioni locali. L’URSS non poteva esportare la democrazia, perché era una dittatura, sia pure con l’eufemismo “del proletariato”, ma introdusse ed impose delle riforme importanti come il diritto allo studio e al lavoro senza distinzioni di genere e l’abolizione dei matrimoni combinati. Provvedimenti che provocarono l’ostilità della popolazione afgana, prevalentemente rurale, nei confronti della introduzione di leggi che minavano l’interpretazione religiosa dell’Islam più radicale ed i costumi su cui si basavano le relazioni sociali tra le famiglie e nei confronti delle donne, accrebbe e cementò l’ostilità nei confronti degli occupanti. A sfruttare quel sentimento furono i mujaheddin che seppero approfittare del malcontento popolare. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Cina, il Pakistan, l’Iran, l’Arabia Saudita e Israele, nella contesa tra blocchi contrapposti, appoggiarono i mujaheddin che riuscirono a logorare le forze sovietiche fino a provocarne la ritirata nel febbraio del 1989. Questa scelta trascurò gli effetti collaterali che avrebbe generato. Dai guerriglieri mujaheddin, sorsero due categorie di soggetti politici che avrebbero influenzato il futuro dell’Afghanistan, e non solo: i signori della guerra da una parte e i talebani appoggiati dal Pakistan dall’altra, artefici di una guerra civile ininterrotta.
- I SIGNORI DELLA GUERRA
Gli Stati Uniti ritenevano, a buon motivo, che la superiorità militare avrebbe avuto buon gioco del fragile assetto militare del governo talebano. Memori delle vittime subite dall’Armata Rossa (26.000 morti e 53.753 feriti) durante l’intervento militare sovietico del 24 dicembre 1979 – 15 febbraio 1989, George W. Bush si alleò con i signori della guerra afgani, coalizzati nella Alleanza del Nord, affidandogli l’intervento di terra contro i talebani, nella fase iniziale decisiva, supportandoli con l’aviazione, prima dell’invio delle truppe di terra. Ma nulla si ottiene senza niente in cambio. I nuovi alleati che si erano contesi aree di dominio territoriale, che controllavano miniere di pietre preziose e dominavano il business del traffico dell’oppio, con la nuova intesa ottennero ruoli di prestigio come governatori di province importanti o in qualità di ministri nel governo filoamericano presieduto da Hamid Karzai. Un compromesso che minò la fiducia della popolazione sulla effettiva credibilità del governo di rinnovare il Paese, soprattutto dopo l’approvazione di uno scudo penale in favore dei signori della guerra per sfuggire a condanne per i crimini commessi, della diffusione della corruzione, della ripresa indisturbata della produzione e della coltivazione dell’oppio (tra i principali trafficanti anche il fratello del presidente Karzai), dell’incremento delle diseguaglianze e delle condizioni di povertà assoluta di una parte significativa della popolazione.
- LA LOGICA DELLA FORZA
Il maggiore azionista dell’intervento militare in Afghanistan erano gli Stati Uniti, a cui si aggiunsero altri 44 Paesi disponibili ad inviare propri contingenti militari. Questi ultimi lo fecero aderendo alla coalizione denominata ISAF (International Security Assistant Force) con il compito di garantire condizioni di sicurezza alle autorità provvisorie afgane insediatesi a Kabul ottemperando alla risoluzione n. 1386 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 20 dicembre 2001, sotto il comando della NATO. La denominazione venne modificata il 1° gennaio 2015 in Resolute Support Mission, incentrata sull’addestramento alle forze militari afgane, senza più compiti di combattimento. Il presidente Usa George W. Bush invece non volle soggiacere alle regole di una coalizione Nato che agiva sulla base dei vincoli delle Nazioni Unite, per avere mani libere, dando vita alla operazione Enduring Freedom (“libertà duratura”), che alle forze armate unì anche mercenari e contractor (a dicembre 2009 ben 104.000 elementi delle milizie private agivano per conto del governo statunitense). La differenza tra militari e contractor era di non poco conto, mentre i primi dovevano sottostare a precise regole di ingaggio, i secondi non avevano vincoli da rispettare nello svolgimento del loro operato. Tra il 2007 e il 2012 l’America ha speso nelle sue operazioni militari circa 160 miliardi di dollari in private security contractors, motivando questa scelta come più “conveniente” sul piano dei costi rispetto ai soldati regolari. Diversamente da altre aree di conflitto, dove gli eserciti della comunità internazionale sono stati inviati sotto l’egida delle Nazioni Unite (come in Libano), con simboli, colori, divise e bandiere delle Nazioni Unite, in Afghanistan invece è avvenuta una sovrapposizione di contingenti militari con metodi e finalità diverse. La presenza di 45 eserciti stranieri, ciascuno con le proprie armate, i propri simboli e le proprie bandiere, in luogo di una forza militare sovranazionale di peace-keeping, non ha giocato a favore della comunità internazionale, alimentando l’ostilità, che naturalmente si insinua in ogni popolo fiero della propria libertà e sovranità, specie in quello afgano, noto per la sua ostilità nei confronti degli stranieri che non assumono l’unico atteggiamento ad essi gradito, quello di considerarsi loro ospiti. È in questo modo che contingenti militari che avrebbero dovuto garantire la sicurezza in una delicata fase di transizione favorire la riconciliazione nazionale, da forze amiche, hanno assunto progressivamente, nell’immaginario di ampi strati della popolazione, i connotati di una forza “occupante”.
- LA CONFERENZA DI BONN
La conferenza di pace di Bonn del 5 dicembre 2001 sulla ricostruzione dell’Afghanistan, è avvenuta con l’imposizione alle Nazioni Unite, da parte dell’amministrazione statunitense di George W. Bush, d’intesa con i signori della guerra afgani, di escludere dalla trattativa i rappresentanti dei talebani che, in quel momento erano allo sbando. Era il momento più propizio per coinvolgerli, avrebbero potuto ancorarsi a quella opportunità che gli veniva offerta per cercare di rimanere protagonisti del futuro del proprio paese, condividendo un percorso istituzionale fino alle libere elezioni, alle quali non avrebbero avuto alcuna speranza di vincere, dopo le malefatte di cui si erano macchiati. Ma si sarebbe creata una opposizione politica e non una guerra civile. Cosa diversa era Al Qaeda e il suo leader Bin Laden, che sarebbero rimasti dei fuori legge, con minori possibilità di raccogliere dei consensi. Oltretutto, il coinvolgimento dei talebani nell’intesa avrebbe agevolato una frattura salutare con al Qaeda. La comunità internazionale non seppe giocare un ruolo più incisivo, se non quello di accodarsi agli Stati Uniti. L’ex ministro degli esteri algerino Lakhdar Brahimi, che all’epoca aveva svolto l’incarico di rappresentante speciale per l’Onu in Afghanistan, non usò mezzi termini: «Ho ripetuto più volte che era spiacevole l’assenza dei Taleban a Bonn. Quando c’è un processo di pace bisognerebbe coinvolgere tutte le parti in causa (…) e io ho il rammarico di non averli fatti partecipare immediatamente alla conferenza di Bonn alla fine del 2001. Ma fu un’operazione impossibile».
- PAKISTAN PAESE AMICO-NEMICO
È difficile comprendere quale logica avesse la strategia degli Stati Uniti, dominata da un cumulo di indecifrabili contraddizioni, tra cui le relazioni con un alleato come il Pakistan, legittimato ad agire da amico e nemico allo stesso tempo. Dopo l’incursione militare che sconfisse i talebani nel 2001, gli Stati Uniti gli consentirono di trovare rifugio e protezione nelle aree tribali di etnia Pashtun nel territorio pakistano oltre confine. Il governo pakistano che fin dai tempi della Benazir Buhtto, primo ministro dal 1988 al 1996, appoggiò il movimento dei talebani, è alleato degli Stati Uniti, da cui continua ad ottenere aiuti economici per sostenere le proprie spese militari, si è dotato di armamenti nucleari senza cadere nelle sanzioni riservate all’Iran, eppure non ha esitato a offrire protezione a Bin Laden che per dieci anni ha guidato le azioni terroristiche ai danni delle forze militari Usa in Afghanistan, rifocillando, armando e consentendo di organizzarsi anche ai guerriglieri talebani col chiaro intento di destabilizzare l’Afghanistan e impedire che la missione militare della comunità internazionale potesse avere qualche probabilità di successo. Gli effetti di quelle contraddizioni non potevano che avere un esito tragicamente fallimentare.
- DEMOCRAZIA AZZOPPATA SENZA RIFORME
Nonostante tutto, c’era ancora una chance per l’Afghanistan, che non venne sfruttata. Le elezioni presidenziali del 2004 raccolsero un consenso di partecipazione popolare superiore alle aspettative, con un’ampia ed entusiastica partecipazione al voto anche della popolazione femminile, che dimostrò l’ampiezza del clima di fiducia che ancora si respirava. Era un attestato che richiedeva da parte del governo delle riforme capaci di corrispondere alle aspettative largamente attese, di miglioramento delle condizioni di vita. Ma poi, divenne chiaro che il quadro politico, economico e sociale, era ancora saldamente in mano ai soliti signori della guerra che si stavano impadronendo delle istituzioni e l’anno successivo, con le elezioni parlamentari ed amministrative, la percentuale dei votanti crollò improvvisamente, dimostrando come meglio non si poteva la delusione e la sfiducia che prese il sopravvento nei sentimenti della popolazione.
- LA RICOSTRUZIONE DIMENTICATA
Se a questo aggiungiamo che la comunità internazionale non ha ottemperato agli impegni che si era formalmente assunta alla Conferenza di Bonn ed in quelle successive per la ricostruzione del paese, è facilmente intuibile quale fosse il comune denominatore di una popolazione che viveva in condizioni di estrema povertà e che non intravedeva alcun spiraglio per un miglioramento delle proprie condizioni di vita. Ci si potrebbe chiedere perché si sia sprecato un fiume di denaro (ben 2.261 miliardi da parte degli Stati Uniti, 8,7 miliardi da parte dell’Italia, senza contare quello degli altri 43 Paesi che hanno partecipato alle operazioni in Afghanistan) per finanziare costosissimi contingenti militari e la onerosissima logistica di supporto, quando nei primi anni, dopo la caduta dei talebani, ne sarebbe stata sufficiente una quantità nettamente inferiore, dedicando più risorse a una sorta di piano Marshall per la ricostruzione dell’Afghanistan. Con tutti quei soldi, mediante appalti internazionali trasparenti con imprese debitamente monitorate, si sarebbero ricostruite infrastrutture vitali per la rinascita del paese e sostenere il rilancio di tutti i settori dell’economia nel rigoroso rispetto della legalità. Il risultato avrebbe cambiato il volto del paese, avviando un processo di modernizzazione che avrebbe attirato investimenti privati, sviluppato l’occupazione e opportunità di impiego, mettendo in circolo un volano economico in grado di aumentare i consumi, determinando un miglioramento nelle condizioni di vita della popolazione. La ricostruzione, quella vera e non la farsa dei piccoli aiuti insignificanti, avrebbe sconfitto inesorabilmente tutto ciò che riportava agli orrori del passato, compresi i talebani, privandoli del sostegno che gli ha consentito di riemergere vittoriosi. Invece il tasso di povertà in Afghanistan è passato dal 33,7% del 2001 al 54,5% del 2016, aumentando le diseguaglianze tra ricchi e poveri. E questo mentre il Paese rischia di diventare l’epicentro del narco-traffico. Infatti, la superficie coltivata per la produzione dell’oppio è passata dai 74.000 ettari del 2002 ai 163.000 ettari del 2019».