Riunione ordinaria n. 31 del 10 marzo: "Quotidiani addio" – Fabio Raffaelli
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FABIO RAFFAELLI
Terza generazione di giornalisti (il nonno Arnaldo Geraldini è stato una delle più importanti firme del Novecento, il padre Filippo un grande inviato del Dopoguerra, la madre Ornella una delle prime croniste giudiziarie) Fabio Raffaelli nasce, professionalmente, in Francia dove debutta, come corrispondente, per la Rizzoli. Caporedattore per oltre venti anni de Il Resto del Carlino, nel 1998 viene nominato direttore editoriale del circuito televisivo E’ tv- Rete7. Recentemente Raffaelli ha ricevuto, dal presidente Napolitano, l’onorificenza di Cavaliere al merito della Repubblica.
Quotidiani addio
C’è chi ha già fissato una data per l’addio dei quotidiani. Insomma il ‘the end’ della carta stampata. Non parlano, una volta tanto, cassandre né gufi: il necrologio lo stanno preparando gli edicolanti che, giorno dopo giorno, devono fare i conti con le rese (le copie che vengono restituite ai distributori) sempre più imponenti.
Qualche editore tenta il tutto per tutto pur di non far naufragare la barca. Ma certamente l’operazione, a tempo determinato, del ‘due per uno’ (due copie al prezzo di una), non riuscirà ad arrestare l’emorragia. Anche perché, al termine della promozione (che non potrà durare in eterno) i numeri torneranno quelli di prima. O peggio.
Numeri che sono disarmanti. Già l’Italia, anche in tempi di vacche grasse, è stata sempre, per numero di lettori, il fanalino di coda in Europa (basti pensare al ‘consumo’ esagerato di quotidiani nei Paesi del Nord), oggi poi meglio non parlarne.
Se guardiamo dall’altra parte dell’Oceano (anche lì qualcuno aveva già ipotizzato l’ultimo giro di rotativa) vediamo che solo la vitalità paga (merce ormai rara nel nostro Paese). La presidente dell’American Newspaper Association (un po’ quello che da noi è la Fieg), al secolo Caroline Little, non solo si dichiara soddisfatta dell’andamento del 2014 ma addirittura lascia pensare ad un 2015 decisamente ‘trionfale’. Matta da legare? Inguaribile ottimista? No: soltanto buona imprenditoria, una manciata di sana creatività e tanto lavoro.
Cito testualmente le sue parole per dimostrarvi quanto sia persona ragionevole e assennata: “Il settore ha sviluppato nuovi modi per raggiungere i lettori, dando loro quello che vogliono: più storie, più impegno, più coinvolgimento e informazione personalizzata. Siamo in grado di individuare le tendenze e creare prodotti migliori”.
Tenetevi bene: i lettori digitali, a quanto riferisce Caroline, sono saliti, negli States, a 166 milioni di visitatori unici a ottobre dello scorso anno. Un vero e proprio record.
Questo mentre, in Italia, piangono tutti. A cominciare dalla Casagit (la Cassa autonoma di assistenza dei giornalisti) che, negli ultimi tre anni, ha perso 5 milioni di euro in contributi di lavoro contrattualizzato. Il che la dice lunga sulla ‘febbre’ galoppante che affligge il settore.
Si va avanti con i contratti di solidarietà (un salario da fame che non permette, soprattutto ai giovani, di tirare avanti e di ipotizzare un futuro familiare), chiudono testate gloriose, non reggono nemmeno quei cavalli di razza che, fino a pochi anni fa, si confrontavano con oltre mezzo milione di copie a testa.
In casa siamo alla terza generazione di giornalisti. Cominciò mio nonno Arnaldo Geraldini, nel 1916, come corrispondente di guerra, poi arrivò mio padre Filippo (Budapest, Algeri, fronti in ogni angolo del mondo). Mia madre, Ornella Geraldini, ha dato molto alla carta stampata, tra le prime donne a firmare su un quotidiano nel Dopoguerra (a lei è intitolato il premio Donne per il Giornalismo, un po’ l’oscar della professione declinata al femminile). Da parte mia ho amato il quotidiano come una famiglia, una moglie, un figlio. Tante citazioni solo per dirvi quanto la professione sia stata, da sempre, nel nostro DNA.
Anni passati a combattere (con stile) i colleghi delle testate concorrenti, anni di routine e di grandi emozioni, di scoop raggiunti dopo giorni di pazienti e difficili inchieste, quasi non esistesse altro al mondo.
La morte del quotidiano è legata, se volete un mio modesto parere, allo scemare della curiosità, al disincanto della categoria che ha più pensato a difendere rendite di posizione che a battersi per i lettori e per mantenere viva e dinamica quella palestra di opinioni che il giornale ha rappresentato.
I giornali arrancano, bruciati dalla velocità di Internet e della tv, offrono dei banali rendiconti di quanto avviene. Soprattutto, per l’80 per cento di quanto viene stampato, utilizzano agenzie. Se i giornalisti hanno il coraggio di firmare veline, se invece di essere sul luogo del disastro o del crimine (ma anche di qualsiasi altro avvenimento) preferiscono il tepore di una redazione (sorseggiando caffè, visto che fumare è ormai proibito) viene da dire che siamo agli sgoccioli.
Comodo criticare, si dirà. Certo. Conosco già l’antifona: l’editore paga poco, perché dovrei stancarmi per una misera paga, perché addirittura mettere in forse la mia salute o addirittura rischiare la vita?
Perché, viene da rispondere, così vuole il mestiere. Così esigono quelle migliaia di giornalisti che ci hanno preceduto e che si sono battuti perché il lettore avesse una visione chiara, completa, appassionata, dei fatti.
Il quotidiano fatto di anticipazioni, dunque, di opinioni che segnano la storia dei nostri giorni, che sanno incidere sulla società, che hanno l’autorevolezza per mandare a casa chi sbaglia, chi si lascia corrompere, chi specula sull’ingenuità del prossimo.
Lo chiedo, ognuno che scrive dovrebbe dirselo, non come giornalista ma perché rappresento migliaia di teste pensanti, uomini e donne che, attraverso il loro giornale, urlano sdegno. Non una penna, o non solo, ma una voce, uno strumento.
Giornali con le palle vorremmo. Io ma penso un po’ tutti. Che seguissero strade diverse senza temere il ‘buco’, non raccontandoci quello che già sappiamo da ore già nel dettaglio. Con giornalisti pronti a mettere il posto a rischio pur di difendere una notizia, un’opinione. Gli editori, è vero, seguono da vicino i loro interessi economico-politici ma di certo non condizionano (o censurano) chi sa scrivere, chi ha idee, chi fa vendere i loro prodotti.
Noi giornalisti ci siamo messi il bavaglio da soli, forse anche le pantofole e la retìna per tenere, di notte, i capelli a posto.
Ci addormenteremo, spegnendo anche l’ultima copia dell’amato, irrinunciabile, quotidiano.
Amen