Relazione settimana

RELAZIONE

Letteratura, società, vita

Io non so né perché venni al mondo; né come; né cosa sia il mondo; né cosa io stesso mi sia. E s’io corro ad investigarlo, mi ritorno confuso d’una ignoranza sempre più spaventosa. Non so cosa sia il mio corpo, i miei sensi, l’anima mia; e questa stessa parte di me che pensa ciò ch’io scrivo, e che medita sopra di tutto e sopra se stessa, non può conoscersi mai. Invano io tento di misurare con la mente questi immensi spazi dell’universo che mi circondano. Mi trovo come attaccato a un piccolo spazio di uno spazio incomprensibile, senza sapere perché sono collocato piuttosto qui che altrove; o perché questo breve tempo della mia esistenza sia assegnato piuttosto a questo momento dell’eternità che a tutti quelli che precedevano, e che seguiranno. Io non vedo da tutte le parti altro che infinità le quali mi assorbono come un atomo.

(U. Foscolo, Le ultime lettere di Jacopo Ortis, con cit. da Pascal)

Ogni anno, all’inizio dei corsi universitari, quando entro in aula per la prima lezione mi capita di scorrere con lo sguardo i volti dei numerosi, nuovi studenti che mi trovo davanti, seduti l’uno accanto all’altro sui sedili di legno disposti ad anfiteatro. E sento, ogni volta, affiorare alle soglie della coscienza una domanda: a che cosa serve la letteratura? A che cosa serve lo studio tecnico della poesia e della prosa? E di una precisa tradizione culturale? Perché continuare a trasmettere questi saperi? È utile alle società che alcune persone si dedichino, al loro interno, allo studio, alla divulgazione, all’approfondimento della letteratura? Vorrei poi chiedere a quei giovani che pure oggi sono sempre più avvolti dalla “narratività” dei testi più disparati: cosa vi aspettate dalla letteratura? Per voi, per la vostra vita, per il vostro lavoro? Se in questo preciso momento – per incanto di favola – fossimo trasportati in volo e percorressimo i cieli sopra la nostra città, vedremo sotto di noi cittadini indaffarati in diverse occupazioni, più o meno utili per il buon funzionamento della società tutta: chi a lavorare in cantiere e a tirare su muri, e se non li tira su bene, ecco che crollano, portandosi via esistenze vere; chi impegnato a garantire la sicurezza dei cittadini, a rischio della propria vita vera; chi ad assicurare, in vario modo, il regolare svolgimento della cosa pubblica vera, impegnato nell’attività politica per la comunità o a erogare i servizi più vari (trasporto di persone, ristorazione, telecomunicazioni, e ancora banche, assicurazioni, ma anche i servizi legati alla ricerca scientifica, alle nuove tecnologie, al lavoro “latamente” culturale, alla formazione di capitale umano, ecc.); chi, intorno alla città, intento a coltivare campi che daranno poi frutto, o allevare e cacciare animali le cui carni ci sfameranno. E ancora: scoperchiando i tetti di alcuni edifici, potremmo vedere, dentro di essi, ad esempio, medici e infermieri che si affaticano per salvare la vita a un paziente, curarne i mali, alleviarne le sofferenze vere; giudici e avvocati arrovellarsi per cercare di raggiungere una verità in grado di riportare ordine (anche se, talvolta, incapace di riscattare davvero danneggiati e vittime) laddove l’azione dell’uomo aveva prodotto un vulnus nei rapporti tra individuo e società; e ancora altri insegnanti, tra i banchi scolastici, concentrati nel trasmettere saperi, metodi, strumenti d’àmbito tecnico-scientifico o economico utili per istruire, educare, formare alla vita vera. Di fronte a tutto questo che valore, che senso può avere la letteratura? Non offro una risposta. Provo soltanto a tratteggiare alcuni spunti di riflessione.

Francesco Petrarca indicò un duplice valore per le humanae litterae: la letteratura come “cura dell’anima”, capace, attraverso il dialogo aperto con altri uomini di far venir fuori l’humanitas di ciascuno, il suo riconoscersi uomo tra gli uomini in consonanza e accordo con gli altri, e, grazie anche alla riflessione che può suscitare su una comune tradizione culturale e valoriale, la letteratura come “impegno civile”, partecipazione del singolo alle condivise vicende della res comune. E non basta. «Scavando intorno alle parole» dei testi – come nota l’italianista bolognese Bruno Basile – è possibile recuperare, talora, «il quadro inedito di una stagione di civiltà». Ecco che la letteratura può avere quel carattere di orientamento per l’uomo, per tutti gli uomini, per ogni uomo, nell’itinerario di conoscenza che porta ciascuno alla scoperta e riscoperta – nel tempo – di se stesso e dell’altro. Non serve a nulla, forse è vero – in termini di utilità sociale, soprattutto se misurata con il metro del guadagno economico – trascorrere tutta la propria esistenza studiando il valore di alcuni temi in Petrarca, Tasso o Leopardi. E soprattutto se chi svolge tali ricerche, chiuso in uno studiolo foderato tutt’intorno di alte scaffalature ricolme di libri, si chiude al mondo, e non ha esso stesso la capacità di comprendere la cifra semantica di quegli aggettivi, di quelle parole. E quindi di rendersi docile, nella propria vita, al loro insegnamento più profondo. Ma, una volta recuperato tale valore alla letteratura (oltre a quello della gratificazione estetica) non è chi non veda come – da tale prospettiva – anche il chirurgo che entra in sala operatoria, l’avvocato che si accinge all’aringo forense, il commercialista che accresce gli utili di un’azienda, possono ricavare un vantaggio dalla letteratura stessa che offre nuovi significati, inediti punti di vista, da portare nella propria quotidianità: sorti dal confronto con una voce amica. Dal momento che ognuno di noi non può non operare che in un contesto unico e irripetibile – la sua persona distinta dalle altre – è soprattutto nel dialogo che si può esprimere, in maniera compiuta, la necessità di compensare il singolo punto di vista «inevitabilmente finito, parziale e difettivo», con altri che – nel confronto – possano aggiungere, integrare, mettere a fuoco prospettive sempre nuove e diverse. Anche chi è lontano dai percorsi della cultura trarrebbe vantaggio dal sentire comune di una civiltà educata a tali valori di rispetto e condivisione. Notava acutamente Ezio Raimondi, illustre e compianto docente dell’Ateneo felsineo:

Mai come per il Novecento, forse, vale […] il principio che le stesse parole della letteratura debbono essere ricondotte alla verità vivente dei testi cui appartengono e più ancora dei contesti cui essi rispondono, poiché alla resa dei conti l’importante non è il dizionario ma la realtà calda e confusa nello spazio sofferto della storia, a cui le parole, quando sono alte ed intense, possono a loro volta recare una propria luce e, forse, la trasparenza intima di un senso.

Lo aveva espresso in modi sublimi, Czesław Miłosz nella sua lirica Il senso:

Quando morirò vedrò la fodera del mondo.
L’altra parte dietro l’uccello, la montagna, il tramonto.
Il vero significato che vorrà essere letto.
Ciò che era inconciliabile, si concilierà.
E sarà compreso ciò ch’era incomprensibile.
Ma se non c’è una fodera del mondo?
Se il tordo sul ramo non è affatto un segno,
ma solo un tordo sul ramo, se il giorno e la notte
si susseguono senza badare a un senso
e non c’è nulla sulla terra, oltre questa terra?
Se così fosse resterebbe ancora la parola
suscitata una volta da effimere labbra,
che corre e corre, messaggero instancabile,
nei campi interstellari, nei vortici galattici,
e protesta chiama grida.

Il miglior commento a questa lirica, lo offre, forse, proprio lo stesso Raimondi:

In questo viaggio della parola entro se stessa, sino a forzare la propria “fodera” ai confini della vita verso la trascendenza inafferrabile di un oltre, la poesia può poi ripiegare sulla prova della propria esistenza, su quella che per Gottfried Benn era la sua impronta digitale, per ritrovarsi nell’universo opaco della parzialità e della contraddizione, dall’altra parte della quale, forse, è il nulla. Ma essa ha comunque creato una voce che afferma e nega, in bilico vertiginoso fra la temporalità e l’atemporale, resiste la fede paradossale in una figuralità nascosta, congettura pura che proietta la sua ombra luminosa sulla contingenza indifferente della nostra terra nuda e sulla certezza individuale di una trepida, effimera sostanza carnale. Ma forse è vero che la parola letteraria, questa voce che si specchia nel proprio segno, rimanda poi sempre alla fine ad un mondo di ombre: anche quando sembra più aderire all’epidermide sensuale delle cose essa invita a cogliere nel proprio spazio velato l’ansia dell’inespresso e dell’invisibile, in cui si cela una verità ancora inesplorata della monade umana e che non possiamo rimuovere senza tradire la nostra stessa umanità.

Ecco, dunque, gli itinerari di conoscenza fatti da ciascuno alla ricerca di un senso. E le tracce del passaggio di uomini nella vita di altri uomini in forma di parole. La ricerca di significato dell’esistenza, della fine dell’uomo, e delle sue origini, delle sue radici secondo un percorso che riannoda gli estremi (da dove veniamo? dove andiamo?) per circoscrivere un orizzonte di senso perlomeno probabile e così cercare di stringere, nella stretta del pugno, un significato per l’esistenza (chi siamo? perché siamo?), dopo aver attraversato e percorso la vita vera, pur con l’artiglio del dubbio nella carne. E forse a ragione si sostiene che portare avanti la fiaccola della tradizione culturale (senza feticismi o chiusure al mondo) può contribuire a dare vita attuale alle società: preservare e attualizzare tradizioni aggreganti per le comunità può riuscire utile per le loro identità e memorie storiche. D’altra parte, come ciascuno non può vivere l’oggi in modo pienamente consapevole o progettare il proprio futuro senza una memoria autobiografica, così le società non possono progredire davvero senza consapevolezza delle proprie vicende umane, spirituali, e anche letterarie…

Ciascuno di noi potrà allora trarre dalla straordinaria esperienza della letteratura un significato, un senso, di modo che tale itinerario semantico e spirituale possa ancora rischiarare, in forma di gesti e di parole, nelle ore di gioia o di livida malinconia, quando scrutiamo dentro di noi, nella speranza durante l’attesa, o di un varco di senso; al lavoro, quando, al mattino, entriamo, in camice bianco, tra le corsie d’un reparto d’ospedale, o in sala operatoria chini su un paziente, in laboratorio tra provette e macchinari sofisticati, o quando ci apprestiamo a eseguire una visita medica confrontandoci con il dolore e le sofferenze, le paure di altri uomini; quando entriamo, togati, nell’arringo forense, a sostenere una causa, per riscattare un’ingiustizia, o a giudicare, uomini tra gli uomini, l’azione di un simile su un suo simile; quando, da dirigenti, impiegati, operai, facciamo andare avanti un’azienda, un’impresa, una fabbrica, utile per la comunità tutta; quando, entriamo nel nostro negozio per vendere con onestà prodotti e merci agli acquirenti che a noi si rivolgono; quando facciamo bene – eticamente – quello che dobbiamo fare, un progetto nel nostro studio, o una mansione in ufficio; quando in una sala di concerto, in un museo, in un teatro, ridiamo voce e vita all’arte dell’uomo; quando, da ruoli di potere, possiamo decidere delle sorti altrui. Quando varchiamo la soglia di un’aula scolastica o universitaria e incrociamo, cerchiamo, durante le nostre lezioni, lo sguardo di giovani studenti, fiduciosi del nostro insegnamento: a inventare, in fondo, alcune delle ore di una vita, e magari anche a colorarle di colori pieni di vita vera.