Relazione settimana

RELAZIONE

 

La solitudine dell’iperconnessione

L’antropologa Sherry Turkle spiega le trasformazioni del nostro io causate dall’uso compulsivo delle nuove forme di comunicazione. «Le tecnologie digitali sono macchine dell’intimità»
«In molti cullano un desiderio: che un giorno Siri, l’assistente digitale dell’iPhone, possa diventare anche un amico. Uno che ti ascolta quando gli altri non lo fanno». Il male con la tecnologia che Sherry Turkle diagnostica nel suo ultimo lavoro e racconta in questo colloquio è tutto racchiuso in una situazione quasi comica: noi che confidiamo amori e paure a un piccolo device in grado di risponderci in maniera adeguata.
Nel suo ponderoso Insieme ma soli (Codice edizioni), l’antropologa e psicologa del Mit raccoglie il precipitato di anni di studi, osservazioni e interviste, su di un mondo che cambia alla velocità di un tweet.

Una lunga inchiesta intorno alle trasformazioni del nostro io causate da un uso smodato e compulsivo delle nuove piattaforme per la comunicazione digitale e a quei dispositivi (addirittura robot da compagnia!) che dovrebbero riempire le nostre solitudini. Si tratta di un lavoro importante come i precedenti e da poche settimane uscito anche in Italia.

Rispetto agli altri lavori, Turkle ribalta le sue valutazioni, c’è più di un velo di pessimismo oggi. Se ne Il secondo io e ne La vita sullo schermo – che risalgono all’84 e al ‘95 – si respirava l’entusiasmo per il nuovo scenario digitale e per le opportunità che apriva, ora no. Computer e smartphone mettono a rischio quello che fin da Aristotele ci caratterizza come esseri umani: la socievolezza.

«Siamo vulnerabili, siamo soli e, allo stesso tempo, abbiamo paura dell’intimità. E per questo stiamo sviluppando tecnologie digitali che sono “macchine dell’intimità” che ci offrono l’illusione di una compagnia senza tutti gli obblighi imposti dall’amicizia». Wired non significa “insieme”, anzi, tutto il contrario. Il paradosso della nostra epoca iperconnessa è quello del titolo del libro. Vogliamo entrare in contatto col mondo intero ma al tempo stesso abbiamo paura delle conseguenze che le relazioni reali possono provocare su di noi.

E la Turkle ammonisce: «In democrazia tutti abbiamo qualcosa da nascondere, una zona di azione e riflessione privata, che va protetta a prescindere dai nostri tecno-entusiasmi ». Il rischio è proprio quello che sull’altare dell’iperconnessione si sacrifichi anche la privacy alla quale ognuno di noi ha diritto. «Credo che la battaglia per ristabilire un adeguato livello di privacy nella nostra vita è la sfida più importante d’ora in avanti. Si tratta di una questione su cui non abbiamo adeguatamente riflettuto. Dobbiamo adeguare le nostre aspettative e le nostre leggi ».

Cartesianamente battezza con “Condivido, dunque sono” questa nuova dimensione dell’essere umano che porta però con sé una malattia. Il problema nasce quando siamo senza rete, senza wi-fi, senza cavo, allora non ci sentiamo noi stessi. E cosa facciamo? «Corriamo a connetterci. Sempre più. Ma nel far questo, ci rendiamo sempre più isolati».

Sono dunque “paura” e “preoccupazione” le parole chiave per comprendere cosa i media provocano sui noi utenti ossessionati? «No, direi proprio di no. Cerco solo di mettere in luce che un uso sbagliato di tablet e iPhone esiste e può avere degli effetti dannosi per noi in quanto esseri umani. Sono ottimista, è necessario però prendere della nostra fragilità e della nostra vulnerabilità».

«Internet permette delle conversazioni tra esseri umani che erano semplicemente impossibili nell’era dei mass media». Così recitava la tesi numero 6 del celebre Cluetrain Manifesto (1999), un testo ormai storico che descrive gli effetti della connessione in rete sui mercati. Tredici anni dopo in molti credono che anche sui social network, twit dopo tweet, sia possibile una conversazione reale, diversa da quella vis-à-vis ma nella stessa misura autentica. «No – risponde secca la Turkle – io non lo penso proprio. Twit e sms non si sommano e soprattutto non hanno gli effetti di una conversazione reale». E quali sarebbero questi effetti?

Per rispondere Turkle tira fuori l’anima della psicologa: «Conversiamo con gli altri, fin da piccoli, anche per imparare ad avere conversazioni con noi stessi. Se non ci confrontiamo con altre persone possiamo compromettere la nostra capacità di autoriflessione. Per i bambini è un elemento fondamentale dello sviluppo. E purtroppo ora mi sembra che ci stiano rubando le vere conversazioni e noi ormai siamo quasi disposti a rinunciare alle altre persone, quelle in carne e ossa». Il poeta Hölderlin scriveva che «siamo un dialogo, per questo ci capiamo l’un l’altro». Ecco, la psicologa del Mit potrebbe dirsi d’accordo e per questo dobbiamo mollare ogni tanto l’iPad.

Insieme ma soli sembra un libro “illuminista” in un contesto “postmoderno”, nel quale il terreno delle nostre certezze sembra sfuggirci da sotto i piedi. Il temutissimo critico del New York Times, la perfida Michiko Kakutani, sottolinea il rischio di bigottismo nelle tesi preoccupate della Turkle. «Nel brusio dei libri che esce da Internet – ci dice la scienziata del Mit – è più popolare scrivere libri che celebrano il futuro della rete, piuttosto che sollevare questioni e cautele. Ma penso che sempre più persone percepiscano che c’è qualcosa che non va. E per questo sono ottimista per il futuro».

Eppure è difficile arruolare Sherry Turkle nella pattuglia degli apocalittici. Da decenni ormai studia le trasformazioni operate dalle tecnologie che via via compaiono sulla scena delle nostre sulla nostra cultura e sulla nostra identità personale. «Quel che negli ultimi anni ha cambiato le carte in tavola, spiega, è la rivoluzione della mobilità. Questo è quello che non vedevo prima». Un tempo, si immaginava, racconta Turkle, ad attraversare reale fisico e virtuale quasi in bicicletta, utilizzando quello che stava imparando nel virtuale nel mondo reale. E ciò, come psicologa, la rendeva positiva. «Il problema con gli smartphone e i tablet – prosegue – è che ora i genitori controllano le email quando sono a tavola, si scambiano sms, si controllano i propri profili su Facebook o Twitter durante le riunioni in uffcio, durante le conferenze, le riunioni tra insegnanti, nelle classi, al cinema. Ci siamo abituati a un nuovo modo di stare “da soli insieme”». Le persone, prosegue la Turkle, vogliono “customizzare” la propria vita. «Vogliono partecipare a una riunione ma dedicare attenzione solo a quegli attimi che li riguardano. Ma alla fine ci nasconderemo gli uni dagli altri anche se siamo connessi. Meglio non essere interrotti dagli amici reali».

Tra le decine di giovani protagonisti delle pagine della Turkle ce ne è uno particolare che rappresenta un legame anche affettivo con la studio delle nuove tecnologie. «La storia della cultura digitale è la storia della vita di Rebecca. Questo libro è scritto come una lettera per lei su come sua madre vede le conversazioni nel suo futuro». Si tratta di un’apertura di credito alla figlia e a tutti i nativi digitali. «Ho fiducia nelle nuove generazioni e nella loro capacità di parlare di temi come quelli di cui mi occupo nel libro. Il problema non è la tecnologia, ma che abbiamo esagerato con essa. Sono sicura che la generazione che è cresciuta con i genitori distratti dai device elettronici non voglia essere a sua volta distratta con i propri figli. Il sentiero da percorrere non è facile, ma abbiamo corretto le nostre relazioni con la tecnologia in passato, per esempio, abbiamo imparato a mettere gli airbag nelle automobili o a moderarci con i cibi poco sani. Impareremo anche con computer e smartphone».

 

Sherry

Sherry Turkle

Esperta di tecnologia mobile, social network e robotica socievole, le sue ricerche come docente del Massachusetts Institute of Technology hanno proiettato Turkle in un ruolo di primo piano nella comprensione del crescente impatto che la tecnologia ha sulle relazioni umane